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Il lavoro di Feeney (2000) esamina in maniera approfondita come lo stile di attaccamento, formato durante le prime interazioni con i caregiver, influenzi non solo lo sviluppo emotivo e sociale, ma anche la salute fisica e i comportamenti relativi al malessere. In questo studio si evidenzia che il legame affettivo instaurato in tenera età, in base ai modelli teorici di Bowlby e alle osservazioni sperimentali condotte da Ainsworth, costituisce la base per la formazione di schemi di regolazione emotiva che, successivamente, determinano la capacità di un individuo di affrontare lo stress e di reagire alle situazioni di dolore o di malattia. Le misurazioni degli stili di attaccamento, che spaziano dalla “Strange Situation” per i bambini a questionari e interviste per adolescenti e adulti, permettono di individuare differenze significative nel modo in cui le persone si relazionano con gli altri e gestiscono il disagio: il bambino con attaccamento sicuro impara a riconoscere e a esprimere il proprio disagio cercando il sostegno degli altri, mentre coloro che sviluppano stili di attaccamento insicuro – siano essi evitanti o ambivalenti – tendono a sviluppare strategie maladattive, come la soppressione delle emozioni o una marcata ipervigilanza nei confronti dei segnali di disagio fisico. Questi modelli relazionali hanno ripercussioni dirette sulla salute, poiché le esperienze negative con caregiver non affidabili o incoerenti possono innescare stati di iperarousal cronico, che si manifestano attraverso alterazioni nei sistemi neuroendocrini, squilibri nei livelli di cortisolo e cambiamenti nella funzione immunitaria. Tali disfunzioni fisiologiche, associate a una gestione inadeguata dello stress, possono contribuire allo sviluppo di condizioni di dolore cronico e ad una maggiore incidenza di sintomi psicosomatici. Studi empirici evidenziano che i bambini e gli adolescenti con attaccamento insicuro presentano una maggiore frequenza di lamentele somatiche e una tendenza a minimizzare o ritardare la ricerca di aiuto medico, comportamenti che si riscontrano anche negli adulti, dove le persone con stili evitanti, per esempio, tendono a consultare meno frequentemente i professionisti della salute, mentre quelle con attaccamento ambivalente mostrano una marcata ipersensibilità verso i segnali di disagio, rendendoli più inclini a percepire e segnalare sintomi fisici. Inoltre, l’articolo sottolinea l’influenza delle dinamiche familiari: il modo in cui i genitori reagiscono ai segnali di malessere dei propri figli, come nel caso dell’eccessiva indulgenza o del minimizzare le lamentele, è fortemente correlato allo sviluppo dello stile di attaccamento e, di conseguenza, alle abitudini di gestione della salute. In famiglie caratterizzate da attaccamenti insicuri, il sostegno emotivo e pratico nei momenti di bisogno risulta spesso insufficiente, creando un circolo vizioso in cui il bambino, o successivamente l’adulto, non impara a utilizzare in modo efficace le risorse sanitarie disponibili, rinunciando a cercare aiuto o agendo in maniera eccessivamente dipendente nei confronti dei medici. Un ulteriore aspetto di rilievo riguarda i meccanismi psicofisiologici alla base di tali comportamenti: le esperienze di attaccamento negativo possono favorire una risposta di iperarousal che, se non viene adeguatamente modulata, conduce a una condizione di stress prolungato, con conseguenze negative sul sistema immunitario e sulla capacità dell’organismo di regolare le proprie risposte infiammatorie. Questo collegamento tra stati emotivi, risposte fisiologiche e salute fisica apre la strada all’idea che interventi mirati sui modelli di attaccamento possano avere effetti preventivi anche sul fronte della salute fisica. È qui che la psicoterapia entra in gioco come strumento di elezione per la prevenzione: attraverso interventi focalizzati sulla ristrutturazione dei modelli interni, i terapeuti possono aiutare i pazienti a rivedere le proprie “working models” e a sviluppare strategie di coping più funzionali, che favoriscano una gestione più efficace dello stress e una maggiore apertura a chiedere e ricevere supporto in situazioni di malessere. In particolare, per chi manifesta un attaccamento ambivalente, il percorso terapeutico può concentrarsi sulla riduzione dell’iper-vigilanza verso i segnali di disagio fisico e sulla gestione dell’ansia, mentre per i soggetti con attaccamento evitante si può lavorare per incentivare una maggiore espressione emotiva e la capacità di accettare l’aiuto altrui, prevenendo così comportamenti di auto-isolamento o il ritardo nella ricerca di cure mediche. La personalizzazione dell’intervento terapeutico, tenendo conto delle specificità del tipo di attaccamento, risulta fondamentale non solo per migliorare il benessere psicologico, ma anche per prevenire l’insorgenza di problematiche fisiche croniche, che spesso trovano radici proprio in modalità di gestione dello stress apprese precocemente. Oltre agli aspetti comportamentali, l’articolo di Feeney evidenzia anche la necessità di considerare le implicazioni di tali dinamiche sui livelli di attività fisica e sulle abitudini alimentari, poiché persone caratterizzate da elevata ansia nelle relazioni possono mostrare maggiori preoccupazioni per il peso corporeo e, di conseguenza, adottare comportamenti alimentari disfunzionali. Questo quadro complesso, in cui le dinamiche relazionali influenzano la percezione del dolore, la risposta allo stress e le abitudini di vita, rafforza l’idea che interventi di psicoterapia possano avere un ruolo preventivo fondamentale, andando oltre il semplice trattamento dei sintomi e intervenendo direttamente sulle cause alla radice, ovvero le esperienze di attaccamento. La revisione critica dei modelli relazionali e l’integrazione di strategie di regolazione emotiva rappresentano, dunque, non solo un percorso per alleviare le sofferenze psicologiche, ma anche un mezzo per prevenire l’insorgenza di malattie fisiche correlate allo stress cronico e alla disfunzione del sistema immunitario. In definitiva, l’analisi proposta da Feeney ci conduce a riconoscere l’interconnessione profonda tra mente e corpo, evidenziando come il benessere emotivo e la qualità delle relazioni interpersonali possano costituire dei veri e propri fattori protettivi contro l’insorgenza di problematiche di salute, e sottolineando il ruolo cruciale della psicoterapia come intervento preventivo, in grado di promuovere una migliore integrazione tra le dimensioni emotive e fisiche dell’individuo e di favorire un approccio olistico alla salute che sia capace di rispondere alle sfide dello stress e del malessere in maniera efficace e personalizzata.
La stimolazione cerebrale non invasiva (NIBS) rappresenta una promettente frontiera per il trattamento dei disturbi psichiatrici, specialmente quando combinata con la psicoterapia. Questa integrazione sfrutta le capacità del cervello di adattarsi e modificarsi attraverso la neuroplasticità, aprendo nuove possibilità per migliorare l’efficacia e la durata dei benefici terapeutici.
La neuroplasticità è la capacità del cervello di riorganizzarsi sia a livello strutturale che funzionale, rispondendo a stimoli esterni, esperienze di vita e interventi terapeutici. La psicoterapia, da sempre, si basa su questo principio per aiutare i pazienti a modificare pensieri, emozioni e comportamenti disfunzionali. Tuttavia, i suoi risultati non sono sempre duraturi, e in molti casi le persone non traggono il massimo beneficio. Qui entra in gioco la stimolazione cerebrale non invasiva, che comprende tecniche come la stimolazione magnetica transcranica (TMS) e la stimolazione transcranica a corrente diretta (tDCS). Questi approcci mirano a modulare l’attività di specifici circuiti cerebrali, stimolando cambiamenti sinaptici duraturi. La NIBS, applicata da sola, ha già dimostrato di ridurre sintomi legati a depressione, ansia e altri disturbi psichiatrici. Tuttavia, il suo potenziale massimo si realizza quando viene combinata con la psicoterapia, creando un approccio integrato.
L’idea alla base di questa sinergia è semplice ma rivoluzionaria: la NIBS può rendere il cervello più predisposto al cambiamento, mentre la psicoterapia fornisce il contesto per dirigere questi cambiamenti verso miglioramenti funzionali e comportamentali. Questa combinazione potrebbe non solo accelerare i progressi terapeutici, ma anche renderli più stabili nel tempo.
Nonostante i risultati preliminari siano promettenti, la ricerca in questo ambito è ancora agli inizi. Restano molte domande aperte, come ad esempio quale sia il protocollo più efficace o come sincronizzare al meglio la stimolazione cerebrale con le sessioni di psicoterapia. Malgrado queste incertezze, l’integrazione tra NIBS e psicoterapia rappresenta un’opportunità unica per affrontare disturbi resistenti ai trattamenti tradizionali. In conclusione, il futuro del trattamento dei disturbi psichiatrici potrebbe risiedere in questa combinazione di approcci. Unendo il rigore scientifico della stimolazione cerebrale con l’approccio umanistico della psicoterapia, possiamo immaginare un nuovo standard di cura, capace di restituire speranza e qualità della vita a chi ne ha più bisogno.
La dieta chetogenica (KD) sta vivendo un vero e proprio "Rinascimento" nel campo della scienza nutrizionale. Originariamente sviluppata per il trattamento dell'epilessia resistente ai farmaci nei bambini, questa dieta è ora al centro di numerosi studi per il suo potenziale impatto positivo su disturbi neuropsichiatrici non epilettici, inclusi i disturbi dell'umore, le disfunzioni cognitive e alcune malattie neurodegenerative come l'Alzheimer e il Parkinson. La KD è caratterizzata da un alto contenuto di grassi (90% delle calorie), una moderata quantità di proteine (8%) e un apporto estremamente ridotto di carboidrati (2%). Questa composizione alimentare induce uno stato metabolico chiamato chetosi, in cui il corpo utilizza i corpi chetonici (come il beta-idrossibutirrato) come principale fonte di energia. I corpi chetonici non solo forniscono energia al cervello, ma possiedono anche proprietà antinfiammatorie e neuroprotettive, rendendo la dieta un candidato promettente per la gestione di diverse condizioni neurologiche e psichiatriche. La chetosi si ottiene riducendo drasticamente i carboidrati nella dieta, spingendo l’organismo a ossidare i grassi per produrre energia. Questo processo riduce l'infiammazione regolando l'attivazione delle microglia, migliora il metabolismo cerebrale fornendo una fonte di energia alternativa ai neuroni e stimola la neuroplasticità migliorando la capacità del cervello di adattarsi e rigenerarsi. Studi su animali e umani hanno mostrato miglioramenti nella memoria a breve termine, nella capacità di apprendimento e riduzioni dei sintomi di ansia e depressione. In modelli animali, la dieta ha dimostrato di migliorare il comportamento sociale e ridurre i sintomi di iperattività, mentre per le malattie neurodegenerative, come Alzheimer e Parkinson, si osservano potenziali benefici nel rallentare la progressione della malattia e nel migliorare la qualità della vita. Nonostante i benefici, la dieta chetogenica presenta alcune difficoltà pratiche: mantenere un regime alimentare con così pochi carboidrati richiede un alto livello di disciplina, mentre disturbi gastrointestinali, affaticamento e carenze nutrizionali possono verificarsi, specialmente se la dieta non è ben bilanciata. Inoltre, sono necessari ulteriori studi per comprendere appieno i meccanismi alla base dei benefici osservati e per ottimizzare le linee guida per specifici gruppi di pazienti. Studi clinici hanno evidenziato miglioramenti nella qualità della vita, nella funzione sociale e nella regolazione emotiva in persone che seguono la KD. Per esempio, i partecipanti a una dieta chetogenica hanno riportato meno fame e più energia nel lungo termine rispetto a chi seguiva diete a basso contenuto di grassi, sebbene gli effetti sulla depressione e sull'ansia non siano sempre stati coerenti tra gli studi. In conclusione, la dieta chetogenica rappresenta un approccio innovativo per il trattamento di alcune condizioni neuropsichiatriche, offrendo benefici che vanno oltre il semplice controllo del peso corporeo. Pur promettente, è essenziale affrontare le sfide pratiche e continuare la ricerca per stabilire protocolli sicuri ed efficaci. Per chi considera di adottare la KD, è consigliabile farlo sotto la supervisione di un professionista sanitario per massimizzarne i benefici e minimizzarne i rischi.
Anche nei processi ipnotici più semplici, si attivano dinamiche relazionali profonde e transferali, spesso descritte con il termine “coinvolgimento arcaico” (Költő et al., 2019). Durante una sessione ipnotica, infatti, si attivano circuiti cerebrali come la corteccia cingolata anteriore, coinvolti nella regolazione emotiva e nel riconoscimento interpersonale (Coan, 2010), quindi le prime esperienze di attaccamento e modelli relazionali primitivi: proprio quelle “materie prime” su cui agisce il cambiamento terapeutico, secondo molti orientamenti.
In letteratura si distinguono due principali stili ipnotici: uno “materno” (emotivo, accudente) e uno “paterno” (cognitivo, autoritario) (Bányai, 2018). Questi stili riflettono le caratteristiche genetiche e, soprattutto, i primi vissuti dell’ipnotizzatore e dell’ipnotizzato. Tuttavia, è sorprendente constatare come la sincronia relazionale non possa essere prevista semplicemente dallo stile condiviso tra ipnotista e paziente. Anche se entrambi possiedono uno stile “materno”, ciò non implica necessariamente una risonanza tra loro.
La sincronia che si crea durante l’ipnosi è un fenomeno indipendente, distinto sia dall’induzione ipnotica che dalla suscettibilità ipnotica. Studi statistici e genetici come quelli di Varga et al. (2012) indicano che la sincronia non è direttamente correlata né alla profondità della trance né al coinvolgimento arcaico.
Rimane aperta la domanda su come la sintonia tra paziente e terapeuta, considerata essenziale in molti approcci terapeutici, possa influenzare i modelli di attaccamento e relazioni primarie, se i due processi siano effettivamente indipendenti. Sebbene spesso l’ipnosi sia percepita come una tecnica di secondo piano, essa rivela il suo valore come strumento di ricerca, poiché consente di studiare in modo preciso contesti sperimentali non facilmente esplorabili con metodi tradizionali.
Esistono numerosi approcci psicoterapeutici, spesso basati su posizioni epistemologiche apparentemente incompatibili. Come si spiega, allora, l'efficacia che ognuno di essi dimostra? A questo proposito, il lavoro di Sarasso et al. (2014) è particolarmente interessante, poiché indaga i meccanismi biocognitivi alla base del cambiamento terapeutico, applicando modelli di sinergia e il principio della libera energia. La psicoterapia viene descritta come un sistema interattivo tra paziente e terapeuta, in cui la "sorpresa sensoriale" funge da catalizzatore per la riorganizzazione e la creazione di nuovi schemi psicologici. I momenti di disorganizzazione, caratterizzati da un aumento dell'entropia e della complessità, sono essenziali per interrompere i pattern comportamentali disfunzionali e favorire il cambiamento. Il terapeuta ha un ruolo cruciale nel modulare l'attenzione e incoraggiare l'emergere di stati emotivi inaspettati, espandendo il campo fenomenico condiviso e promuovendo la plasticità cognitiva. Secondo gli autori, la capacità del terapeuta di accogliere la novità e consentire l'instabilità sistemica può migliorare gli esiti terapeutici. La ricerca futura dovrebbe indagare come tale apertura possa influenzare i risultati clinici.
Questa prospettiva introduce anche un concetto affascinante: il cambiamento terapeutico è intrinseco al paziente stesso. La psicoterapia, come affermato da molti terapeuti noti, può essere vista come un processo maieutico, in cui l'introduzione di nuove energie consente al paziente di riorganizzarsi e ricostruirsi.
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